Casualità
Ieri sono passato a vedere come stavano i miei anziani genitori, sono un figlio premuroso. La mia visita, casualità, è caduta proprio all'ora di pranzo. Scendo dalla macchina, parcheggiata sui gladioli di mio padre, e mi incammino verso casa dei miei pensando: sovracosce al forno? Tortelli? Polpette di patate? Lasagne? Ma prima ancora di arrivare ai gradini, noto una cosa strana: un uomo del tutto somigliante a mio padre, in giardino, che gioca con dei tronchi e una motosega. Penso: perché non è a tavola? Così vado a chiederglielo. Presto, gli dico, che si fredda! Lui spegne la motosega e mi guarda. Intorno alla testa uno sciame di moschini. Sono intorno anche alla mia. Quanti moschini!, dico cercando di scacciarli. Lui dice: non li noto neanche. Che bello!, dico. Poi ripeto la frase che è fondamentalmente il cardine della mia presenza lì: a tavola, si fredda! Lui mi si avvicina. È un po' duro d'orecchi, probabilmente zeppi di moschini morti, penso. Cosa?, mi fa. Terza volta: si fredda!, dico lanciandogli una manciata di gladioli in faccia. Hai cucinato?, mi fa lui, ridacchiando. Mi dà noia il fatto che ridacchi. Come se non sapessi cucinare. Che ci vuole? Pancarré, maionese, funghetti e voilà. Ma io sono lì per la compagnia, per la condivisione. Non c'è tua moglie?, chiedo. Lui scuote la testa e indica un cumulo di terra lì vicino. Voleva essere cremata, osservo. Lui ride e rimette in moto la motosega e dice qualcosa che non posso capire. Deve essere bello essere sordi, penso. Per esempio puoi usare la motosega tutto il giorno e la sera non ti fischiano le orecchie. Non devi neanche spegnerla quando hai finito di usarla, puoi tenerla accesa in camera da letto, così la mattina ti svegli ed è già pronta. Puoi andare a un concerto di musica trap. O rap. E non ti danno fastidio i moschini, a quanto pare. E non hai fame! Va be', ciao, dico facendogli ciao con la mano. Lui mi saluta toccandosi la tesa del cappello come nel vecchio West. Entro in casa. Figurati se la mia adorata anziana madre - aka quella - non ha lasciato una teglia di qualcosa da qualche parte per il suo adorato figlio, penso. O una torta. Fa sempre torte. Non sono quasi mai per noi, ma le fa. Per zia Mariuccia, per il cugino Alberto, per idraulici o elettricisti. Una volta ha fatto una torta per quelli che svuotavano la fossa biologica. Ma questo non mi riguarda, non mi importa se qualcuno ha ordinato una torta, se la intercetto me la mangio. La torta sfornata è mia finché non esce dalla casa dei due tizi che hanno sfornato me, queste le regole. Ma in casa non c'è niente. Tocco il forno e dico: non viene acceso da giorni. Apro un cartoccio con una biro: finocchi. Scuoto la testa. Prendo il cartoccio e lo butto nella spazzatura. Prima rovisto con la biro nel cestino, facendo luce con il telefono. Si sa mai. Niente, però. Apro il frigo, ci sono tre bottiglie di latte a una mozzarella. Non hanno neanche fatto la spesa, penso. Scendo e apro il secondo frigo: carote, formaggi, yogurt. Mm, penso. Apro il secondo forno: camicie. Mm. Torno di sopra, poi fuori. Passa un gatto con una lucertola in bocca, lo saluto. Il gatto affretta il passo. Guardo l'ora e penso: zia Mariuccia! Le scrivo un messaggio: ciao zia! Passo a salutarti? Lei risponde subito: certo, Eugenio, sto facendo la trippa. Le rispondo: non ho tempo, zia, scusa. Intanto, ancora nel cortile di casa dei miei, incrocio un tizio. Sono qui per una crostata, mi fa. Fanno trenta euro, gli dico. Ma mi avevano detto che era in regalo, piagnucola. Lo guardo come a dire: sei serio? Allora mi sgancia i soldi. Segua il profumo, gli dico, e lui procede. Lo osservo salutare mio padre, attraversare il cortile. Poi salgo in macchina, schizzo via.